domenica 30 gennaio 2011

Cinque ottobre duemilacinque

La giostra si è fermata e io devo scendere.
La mia corsa è finita.  Me lo sentivo sotto la pelle. La notizia che tanto temevo si è avverata. Dirò addio a tutti i colleghi della redazione, i tecnici e tutte le persone che mi hanno accolto a braccia aperte sei mesi fa.
Delusione, amarezza. Quante stagiste hanno provato lo stesso? Questo è il sapore della batosta: sinceramente lo facevo piu’ tagliente e poi  pensavo di reagire molto peggio.
Ho salutato con occhi vuoti e increduli i miei sogni realizzati a metà.
Che sia questo la sensazione delle donne che si trovano ad affrontare un aborto?

Mi sento una barchetta in mezzo al mare, senza il motore. Prima, fino ad un momento fa andava piano piano per la sua rotta.
La vedevo bene sulle carte e nel cielo. Poi l’interruttore delle stelle si è inceppato e io sono rimasta al buio.

Lunedì mattina la pioggia ha fatto compagnia per tutto il giorno.
Sulla strada del lavoro incrociavo tanti bambini vestiti con la mantellina, stivaletti di gomma e ombrellino. Tutti colorati come fiorellini.
Accidenti, anche io avevo un paio di stivaletti rossi di gomma.
Da bambina.
Ma non avevo tutti questi pensieri.
Da bambina.
Domani sarà l’ultimo giorno effettivo in cui sarò operativa.

Fino a pochi giorni fa avevo voglia di ringraziare Dio per tutto quello che mi stava capitando.
Ora non me la sento più perché è come se mi avesse tradito… gli ho dato la mia fiducia, ho deciso di avvicinarmi a lui e fare la pace.
Bello scherzo davvero, grazie! Se penso che mi sono anche confessata per ripulirmi da tutte le schifezze accumulate in questi anni.
Forse era meglio una clinica o continuare con gli antidepressivi…

Eccitazione, stato di allerta. Ho deciso di sfoderare tutte le mie armi e rimettermi in pista.
Disperazione? Si a tratti c’è stata anche quella, tanto che mi sono ridotta a telefonare al “mio caro professore-presentatore” per un salutino di convenienza  (chissà mai che abbia bisogno di una giovane presentatrice in erba per il suo nuovo format…)
Non è da tutti avere un professore vip all’università … e io me lo sono subito ingraziato con la mia sfacciataggine e la mia semplicità di ragazzina ingenua e maliziosa.
È stato un gioco da ragazzi accalappiarlo.
È bastato nemmeno un semestre per rimediare una cena e un pranzo romantico nel quadrilatero della moda milanese.
Peccato che allora non avevo ancora lo “stomaco” per sopportare addosso le mani di un vecchio.
Mi sono lasciata scappare un bella gallinella dalle uova d’oro.
Quando si è avvinghiato a me strappandomi un bacio molle e viscido mi ha sussurrato che impazziva per le mie labbra di corallo.
La mia morale era ancora immacolata e pura. Mi sono divincolata e sono scappata verso la metro con la vista offuscata dalle lacrime.
La mia  recherce non si è interrotta.
Ho chiamato un altro mio  professore dell’università. Stavolta più innocuo, ma meno succulento di opportunità. Purtroppo.
Fondamentalmente un comunista vecchio stampo, buono e timido.
Buono perché ciccione e comunista.
Timido perché senza capelli, con una circonferenza vita esageratamente enorme e gli occhiali spessi.
Barricato in un appartamento al settimo piano di via M. con la bandiera della pace alla finestra, vive attorniato da scaffali di libri, cd e giornali.
Questa la sua povera e muta famiglia.
Mi ha offerto un te con i biscotti, abbiamo parlato delle mie prospettive. – Cercherò di fare il possibile…conosco giornalisti che potrebbero farti entrare nella loro redazione - mi ha detto. 
All’ undicesimo biscotto parliamo  di film, al quattordicesimo mi dice da quanto tempo non va al cinema, al diciannovesimo mi ha invitato a vedere l’ultimo film di Wim Wenders.
Ho annuito con poca convinzione.
Non ci sono mai andata.

sabato 29 gennaio 2011

Uno

Lo aveva conosciuto in una serata d’agosto. Sette anni fa. 
Ubriaco e senza un posto dove andare. La serata era finita, ed era ora di andare a casa ma lui non aveva le chiavi del portone.
Forse erano rimaste sul sedile dell’auto di qualcuno che però aveva già preso la strada di casa.
Forse non le aveva nemmeno prese con sé prima di uscire.
Forse le aveva perse ballando come un pazzo in mezzo alla pista.
Nonostante fosse estate il freddo e l’umidità si infiltravano nelle ossa e Clem era esausta.
La serata era scivolata via come tante altre serate: musica, alcool, corpi sudati e appiccicosi che ti finivano addosso, voglia di non pensare a nulla… e si stava chiudendo senza di speciale se non fosse stato per lui.

Il ragazzo dai capelli rossi senza le chiavi di casa.

Amico di amici, una personalità sfuggente come il suo sguardo, sempre basso.
Era stato scaricato al parcheggio da un amico che andava di fretta.
-         Ma chi è questo? E da dove spunta? –
Nella compagnia era conosciuto da tutti. Clem era l’unica che non lo aveva mai visto e a dirla tutta,
di primo acchito, non lo aveva nemmeno preso in considerazione come persona “degna di nota”.
 La spietata radiografia che Clem gli aveva fatto aveva dato esito “negativo”.
No. Non c’entrava nulla con lei. Non rientrava tra le sue possibili prede.

-         Piacere, Clem –
-         Piacere, Filo –
Ma che razza di soprannome aveva? Però era carino…
Era infreddolito, magro e pallido come un fantasma. La luce del lampione accendeva le sue labbra rosse. Tremava ma rideva. Dove avrebbe passato la notte?
Si avvolgeva come un bambino in una coperta rigida e ruvida che gli avevano prestato alcuni amici.
-         Fa niente, resto qui sulla panchina a dormire…  tanto ho la coperta! –
Era diventata la barzelletta della serata.
-         Se vuoi puoi dormire da me in taverna … - Le uniche parole che Clem riuscì a proferire.
Proposta caduta nel vuoto.
Quella serata non ebbe seguito ma il fantasma dai capelli rossi rimase nascosto in un angolino della mente di Clem.
Rimase lì, buono buono avvolto nella sua coperta, ad aspettare che gli eventi e il destino si mettessero d’accordo per fare in modo che le loro strade si incrociassero di nuovo.